Insieme

Ci sono pietre da rimuovere e bende da sciogliere

Ci sono pietre da rimuovere perché trionfi la vita. E tocca a noi rimuovere le pietre. Lo comanda Gesù nel Vangelo di questa domenica: «Rimuovete la pietra!» (Gv 11,39). A Lui di generare vita nuova. Ma se noi non rimuoviamo le
pietre, è la morte a trionfare. Sì, perché se noi continuiamo a mettere pietre, invece che cominciare a toglierle, nemmeno Dio può riuscire a far trionfare la vita. E di pietre da togliere ce ne sono tante.

Qual è quella che ho messo io? E quella che hai messo tu?

Quale delle tante pietre che gravano sull’umanità, sulle relazioni personali e comunitarie, sulle domande grandi circa il senso del vivere e del morire, io voglio cominciare a togliere? E tu? E noi insieme, come comunità civile e come comunità cristiana? Non si può rimanere a guardare, o inermi, o indifferenti, di fronte agli uomini e alle donne schiacciati in un sepolcro di morte da una pietra di violenza o di ingiustizia, o di prova della vita, o di male fatto o subito, che grava sopra di loro. Gesù ci scuote e ci comanda: «Rimuovete la pietra!».

Se uno obbedisce alla parola di Gesù e toglie la pietra, allora ricomincia il processo che libera la vita dai legami della morte, e si inverte – una pietra per volta – la logica di morte in cui vive questo mondo.

«Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43): è il secondo imperativo di questo lungo brano di vangelo. E’ la chiamata alla vita, che fa eco alla prima chiamata, quella che ci ha generati dal nulla alla vita di questo mondo, e che ora richiama dal nulla
della morte coloro che la morte ha rapito, per farli rinascere alla pienezza della vita eterna.

Scrive Paolo VI nel suo testamento: «Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce. Dinanzi perciò alla morte, al tota-le e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita” (dal testamento di S. Paolo VI).

E ancora, in questo processo di resurrezione, Dio chiama l’uomo a collaborare:
«Scioglietelo e lasciatelo andare!» (Gv 11,44).

E’ il terzo imperativo di questo brano. Sant’Agostino riferisce questo imperativo innanzi tutto ai ministri della Chiesa ai cui è data la facoltà di assolvere i peccati: «Perciò, ai ministri della sua Chiesa, per mezzo dei quali impone le mani ai penitenti, Cristo dice: Scioglietelo e lasciatelo andare» (Sant’Agostino, Discorso 139/A).

Ma prosegue ricordando un’affermazione che Gesù ha rivolto ai suoi discepoli, e dopo di loro ad ognuno di noi, battezzati: «Sciogliete, sciogliete: Tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18,18). E’ il potere di rimettere i peccati, di condonare i debiti, di spezzare la catena del male rispondendo al male con il bene…

Ci sono, dunque, anche bende da togliere: quelle dei rancori, delle vendette, dei silenzi di morte, quelle che inchiodano una persona a quel suo errore, e in-chiodano chi la condanna nel ruolo di giudice spietato; quelle che legano i piedi e le mani che così non si possono incontrare, quelle che coprono i volti e li nascondono, rendendo impossibile parlarsi e guardarsi negli occhi.

L’ormai prossima Pasqua dell’Anno Santo della Speranza è la festa della rimozione delle pietre e delle bende che vengono sciolte. Dio rimuove le pietre più dure, e le bende più strette contro cui vanno a schiantarsi e rimangono impigliate le speranze e le aspettative più profonde del cuore dell’uomo: la morte, il peccato, la paura.

Spesso a ostruire la speranza è la pietra della sfiducia, le bende della rassegnazione.

Quando si fa spazio l’idea che tutto va male che e che al peggio non c’è mai fine, rassegnati arriviamo a credere che la morte sia più forte della vita e diventiamo portatori di malsano scoraggiamento. Pietra su pietra costruiamo dentro di noi un monumento di insoddisfazione, il sepolcro della speranza.

Lamentandoci della vita, rendiamo la vita dipendente dalle lamentele e il nostro spirito si ammala.

Si alimenta così la cultura della morte! Ma il Signore non abita nella rassegnazione.

E’ risorto; non è il Dio dei morti, ma dei viventi. Allora, obbediamo alla Parola: non seppelliamo la speranza!

don Andrea