Questa domenica, mentre in diocesi si riaprono in modo gioioso e pieno di speranza gli oratori, insieme alla Chiesa universale celebriamo la giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Ormai ci suonano familiari le espressioni “chiesa in uscita” e “cultura dell’incontro” che sono diventate persistenti nell’insegnamento di papa Francesco.
Per essere “Chiesa in uscita” le comunità cristiane devono vincere quella accidia che le ha rese sempre più insignificanti nei contesti in cui risiedono. E’ più facile e più comodo continuare a ripetere le stesse pratiche di sempre, che non rispondono più alle esigenze della realtà, ma ad interessi limitati da visioni parrocchiali ristrette, legate a un “noi”, che perde sempre più persone, incapace di aprirsi agli altri.
Per promuovere la “cultura dell’incontro”, nell’attraversare questa pandemia, occorre dirigere il timone verso una “normalità nuova”, più umana, più giusta, più solidale, più responsabile: una normalità sensibile alla sofferenza di tutti i nostri fratelli e sorelle del mondo. Occorre domandarci: quali sono le catene del pregiudizio che dobbiamo spezzare nelle nostre comunità in modo che possano aprirsi ed incontrare tutti? Non c’è alcun dubbio che tra di esse ci sono anche le catene della paura del migrante e del rifugiato, della discriminazione e anche del razzismo.
La Chiesa che vive nell’autosufficienza diventa sempre più una comunità introversa, chiusa in sé stessa, convinta di bastare a sé stessa e di essere essa stessa al centro della propria vita e del mondo.
Tale chiesa è una comunità misera in almeno due sensi:
perché non coglie l’opportunità di accogliere i doni che l’incontro con gli altri mette a disposizione; e
perché si allontana progressivamente dalla realtà del mondo in cui viviamo.
Forse il rischio più grande è che l’autosufficienza si trasformi in arroganza e presunzione, atteggiamenti che ci rendono “anti-patici” piuttosto che “sim-patici”.
Non si tratta di quella simpatia che ha come obiettivo un renderci piacevoli agli altri, che ambisce ad una popolarità superficiale. Ciò che si intende per “sim-patia” si riferisce ad un senso più letterale del termine, cioè la disposizione e l’intelligenza di “sentire con gli altri”, una parola che fa coppia con com-passione.
La Chiesa che esce ed incontra è, in altre parole, una chiesa estroversa, non centrata su sé stessa, ma sulla visione di Dio, il Regno che Gesù ha proclamato; allo stesso tempo è una Chiesa sim-patica e com-passionevole, che vuole sentire le gioie e i dolori del mondo e dell’umanità.
Tre inviti stiamo rivolgendo alla gente di questa comunità cristiana, e attorno ad essi stiamo riflettendo in tante occasioni con i vari gruppi parrocchiali per essere Chiesa sim-patica e com-passionevole:
1. sentire la dimensione caritativa come costitutiva dell’essere cristiano e di tutta la comunità, e non appannaggio di pochi volontari che facciano la carità “di mestiere”;
2. vivere la liturgia con il protagonismo di tutti i fedeli per con-celebrare la gioia di riconoscerci salvati nel Signore ed essere davvero il “corpo vivente” di Cristo nella storia, e non stanchi spettatori di qualcosa che non sa più comunicare né un messaggio, né un’emozione, ed è lontano dalla vita;
3. vivere l’oratorio e i cammini di fede come occasione per riscoprire la bellezza della vita comune, della condivisione, del camminare insieme, che fa del nostro essere cristiani una novità per questo mondo chiuso nell’individualismo e nell’indifferenza, e per i più giovani della comunità un’occasione per crescere dentro l’esperienza del vangelo che apre la vita all’incontro gratuito con l’altro e al dono gioioso di sé.
La Chiesa che esce all’incontro non è possibile se ci affidiamo alle sole forze umane: lo Spirito “scomodi” anche noi, piccola chiesa dell’Alto Lario e ci doni il coraggio, l’energia e la pazienza di imboccare e camminare su questa strada che è quella che ci conduce verso “un noi grande come l’umanità”.
don Andrea