Questa volta non sono i suoi avversari a punzecchiare Gesù, come accade ripetutamente nella pagina del capitolo 22 di Matteo, una pagina costellata di “controversie”, ossia di polemiche con farisei e sadducei. Ora è lui stesso che provoca i farisei riuniti in un’assemblea, rivolgendo loro il quesito che abbiamo citato, apparentemente banale. Non era, infatti, noto a tutti i lettori della Bibbia che il Messia (= il consacrato del Signore) sarebbe venuto dalla discendenza di Davide? Dov’è, dunque, la difficoltà?
Essa è da cercare nel prosieguo della discussione. Gesù, infatti, mette sul tappeto del dibattito un celebre Salmo messianico, il 110, ritenuto opera di Davide. L’inno, composto dal famoso sovrano considerato appunto dalla tradizione come l’antenato del Messia (Gesù è infatti detto “figlio di Davide”, cioè suo discendente), «mosso dallo Spirito » (22,43), inizia così: «Disse il Signore [Yhwh Dio] al mio Signore [il re Messia]». Segue l’oracolo: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi». Davide, quindi, chiama il Messia “mio Signore”. Facile è l’obiezione di Gesù: «Se dunque Davide lo chiama “Signore” come può essere suo figlio?» (Mt 22, 44-45). Se il Messia-Cristo è “figlio di Davide”, come può Davide definirlo suo “Signore” e quindi a lui superiore?
I farisei si trovano coinvolti in una disputa di taglio rabbinico, un genere nel quale peraltro eccellevano. Gesù li avviluppa nella stessa rete che essi più di una volta avevano teso contro di lui con i loro quesiti. A questo punto, però, ci si attenderebbe di vedere come Gesù – qui raffigurato nella veste di un rabbí giudaico – riesca a risolvere la contraddizione tra un Messia
contemporaneamente figlio e Signore di Davide, così come afferma il Salmo 110. La conclusione di Matteo è spiazzante: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (22,46).
Marco, che ambienta questa scena nell’area del tempio di Gerusalemme, senza introdurre i farisei come interlocutori, conclude semplicemente: «la folla numerosa lo ascoltava volentieri» (12,37).
La risposta a quell’apparente contraddizione è possibile solo all’interno della fede cristiana. Per il giudaismo, infatti, il Messia rimane creatura umana e come tale non può essere definito “Signore”. Nel cristianesimo il
Cristo ha certamente una reale dimensione storica e, quindi, è ancorato nella sua umanità a una discendenza, quella di Davide, attestata dalla genealogia che lo stesso Matteo pone in apertura al suo Vangelo: «Genealogia
di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (1,1). Egli è, dunque, realmente «figlio [discendente] di Davide». Ma contemporaneamente è figlio di Dio e, in questa luce, è “Signore” di Davide. Il mistero centrale del
cristiano, l’Incarnazione del Figlio di Dio che si fa uomo, risolve dunque anche l’enigma del Salmo 110, posto da Gesù all’attenzione dei farisei. Ma per noi, cristiani di oggi, la questione rimane aperta, poiché è facile considerare Gesù come un uomo, come un amico e un compagno di vita, come uno di cui si studia a scuola, come di tanti altri uomini e donne illustri della storia; è più difficile riconoscere in Lui il Messia, il Figlio di Dio, il nostro salvatore. Quanto spesso ricorriamo a Lui per essere liberati dal male con la confessione? Quanto spesso nelle nostre giornate lo invochiamo dicendogli: “O Dio, vieni a salvarmi!” oppure: “Signore, salvami!”, o “Gesù, confido in Te!”?
don Andrea