Suggestivo il passaggio del vangelo proposto dalla liturgia di questa domenica. Giovanni, con poche parole, come pennellate di un sapiente pittore, ci dipinge la scena della morte in croce di Gesù. Essenziale, ma densa di profondità.
Il primo tratto sorprendente è questo: quando nei film o in un libro si rappresenta uno che si accorge di morire, di solito dice: “è finita!” o “è la fine”. Suo malgrado, anche se vorrebbe poter andare avanti, deve arrendersi a qualcosa di più forte che sopraggiunge e interrompe il flusso della vita. Gesù morente, invece, afferma: “E’ compiuto”. Cioè “è fatto e finito”; “è stato portato a termine”, “tutto è stato dato”. E Giovanni, suggella queste parole con una preziosa annotazione: “e consegnò lo spirito”. Dunque, nulla di interrotto, nella morte di Gesù, niente di lasciato a metà. Gesù ha fatto in tempo a fare tutto, a dare tutto, fino a consegnare lo spirito. Non c’era rimasto più niente nel corpo martoriato ed esanime di quel Crocifisso. Prima che la morte venisse a prendere ciò che restava da prendere, Lui aveva già dato tutto, compiendo con quell’ultimo dono, una intera vita fatta di dono di sé, fino alla fine.
Ed ecco un’altra pennellata, questa volta drammaticamente ironica: “vedendo che era già morto, uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco”. Cosa pensava di poter ancora prendere con quella lancia? Aveva visto che era morto: cosa voleva fargli ancora quel soldato? Uccidere un uomo già morto? Quel colpo di lancia non ha finito Gesù. Lui aveva già finito: la sua vita si era compiuta. Tutta donata. Nessun brandello o briciola di Lui rimaneva da prendere. Non c’è più tempo per Lui, non c’è più nulla da aggiungere per Uno che si è tolto tutto. Né altre parole, né altri gesti: una vita che ha dato tutta se stessa è una vita compiuta.
In quella indagine improvvisata, con quella lancia come un bisturi, quel soldato andava a frugare nel cuore di Gesù, come per indagare la profondità del suo amore: solo un rivolo di sangue e acqua. Nient’altro. In quella ferita post-mortem c’è il sigillo di una vita che ha trovato la sua pienezza svuotandosi fino alla fine. Suona come un paradosso, ma è così che Dio ci ama.
Giovanni con la sua tipica essenzialità e profondità ci riconduce alla croce, per ammirare lo spettacolo di questo amore paradossale. Non ci vuole commuovere, non vuole suscitare sentimenti di pietistica compassione, ma suscitare nel cuore una domanda: come sto io di fronte a questo amore che è anche per me? Da quella croce, in quel corpo svuotato, risuona l’invito a lasciarsi amare – questo significa essere discepoli: riconoscere di essere amati da Dio Padre. Da quella croce, in quel corpo svuotato, risuona insieme anche una chiamata: a fare di sé, a somiglianza del Maestro Gesù, un dono, fino a svuotarsi. Completamente. Perché al sopraggiungere della morte, lei non abbia più niente da prendere, perché come Gesù, anche noi tutto abbiamo dato prima. E così per noi non sarà la fine. Ma come per Gesù, anche per noi, tutto sarà compiuto.
don Andrea