La pandemia che stiamo vivendo ha evidenziato ulteriormente le disparità e le disuguaglianze che caratterizzano il nostro tempo, in particolare a discapito dei più deboli. Il virus, mentre non fa eccezioni tra le persone, ha trovato, nel suo cammino devastante, grandi disuguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate. «Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti. In fondo, le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili» (Fratelli tutti, 18).
Negli ultimi cinquant’anni sono stati compiuti passi importanti, a livello sia delle istituzioni civili sia delle realtà ecclesiali sui temi della fragilità dell’essere umano. È cresciuta la consapevolezza della dignità di ogni persona, e questo ha portato a fare scelte coraggiose per l’inclusione di quanti vivono una limitazione fisica o psichica. Eppure, a livello culturale permangono ancora troppe espressioni che di fatto contraddicono questo orientamento. Si riscontrano atteggiamenti di rifiuto che, anche a causa di una mentalità autocentrata e utilitaristica, sfociano nell’emarginazione, non considerando che, inevitabilmente, la fragilità appartiene a tutti. In realtà, ci sono persone con disabilità anche gravi che, pur con fatica, hanno trovato la strada di una vita buona e ricca di significato, come ce ne sono tante altre che definiamo “normodotate”, che tuttavia sono insoddisfatte, o a volte disperate. La vulnerabilità appartiene all’essenza dell’uomo.
E’ questo che ci infastidisce quando incontriamo persone segnate dalla malattia, dalla fragilità della condizione anziana e dalla disabilità: queste persone ci ricordano che l’essere umano è fragile e precario, e a questo non ci vogliamo pensare, perché si scontra con i modelli inarrivabili di uomini e donne perfetti e sempre riusciti, che ci vengono proposti in ogni ambito della vita culturale e sociale.
E così facciamo fatica ad abbandonare una visione della vita improntata al grido spregiudicato del: “si salvi chi può”, per riconoscere più onestamente che siamo tutti sulla stessa barca e l’unica salvezza viene dal salvarci insieme. «Peggio di questa crisi – affermava a Pentecoste papa Francesco – c’è solo il dramma di sprecarla».
Un celebre libro del teologo Dietrich Bonhoeffer si intitola Resistenza e resa. Secondo l’autore, sono i due movimenti che scandiscono la vita umana.
Il primo è quello della resistenza della vita di fronte agli ostacoli, alle prove, alla sofferenza, alla tentazione della morte.
Il secondo movimento – che nella cultura odierna abbiamo rimosso – è quello della resa. E’ qui che la vita si rivela pienamente umana. Infatti se la resa senza la prova della resistenza può essere una fuga dalla vita, la resistenza senza la possibilità della resa può diventare un supplizio o un martirio inutile, a cui condanniamo proprio quelli che tra noi hanno meno possibilità di riuscire a cavarsela da soli e a costruirsi una vita “degna” di essere vissuta, e noi stessi, quando la vita ci mette alla prova, o la stagione della malattia e della vecchiaia arrivano anche per noi.
Il 3 dicembre abbiamo celebrato la giornata internazionale delle persone con disabilità: un’occasione per fermarci a considerare il tema della fragilità come qualcosa che ci riguarda tutti.
Il compito dei credenti di fronte alla sfida della fragilità umana è – oggi più che mai – di essere intelligenti e umani, affermando che il senso della vita viene prima del senso degli affari; che il senso della vita non riguarda alcuni, ma tutti, e che non può mai essere misurato e calcolato: infatti, vivere è il senso più profondo per ogni uomo e ogni donna venuti al mondo.
E’ da questo secondo movimento, quello della resa come accoglienza della fragilità, che nasce la cultura dell’inclusione, che genera solidarietà (= tanti bastoncini, presi uno a uno si spezzano facilmente; messi insieme acquistano robustezza), condivisione (= è l’atteggiamento contrario dell’indifferenza e dell’esclusione) e compassione (= la capacità di patire-con).
don Andrea