Nelle Scritture pastori e pecore sono molto presenti, perché facevano parte della società pastorale-agricola in cui la Bibbia è sorta. Essere pastore significava svolgere un mestiere che aveva grande rilevanza e tutti sentivano la figura del pastore come esemplare.
Noi oggi siamo lontani da quella situazione, non conosciamo né vediamo, se non raramente, pastori che
conducono il gregge; e soprattutto, le pecore non ci appaiono capaci di rappresentarci. Per comprendere le parole di Gesù dobbiamo fare uno sforzo in più rispetto a coloro che le ascoltavano ai suoi tempi in Palestina.
Innanzitutto Gesù dice che quanti lo seguono e sono suoi discepoli ascoltano la sua voce. Questo è l’atteggiamento di chi crede: egli crede perché ha ascoltato parole affidabili. È il primo passo che l’essere umano deve compiere per entrare in una relazione: ascoltare, che è molto più del semplice sentire.
Tra le tante voci di quelli che ci parlano è possibile riconoscere quella voce che ci raggiunge in verità e con amore. Tutta la fede ebraico-cristiana dipende dall’ascolto – “Ascolta, Israele!” (Dt 6,5; Mc 12,29) – e
sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17). Per avere fede in Gesù occorre dunque ascoltarlo, con una disponibilità che permetta una comunicazione profonda, la quale giorno dopo giorno crea la comunione.
La seconda azione che Gesù presenta come propria delle sue pecore si riassume nel verbo seguire: “Esse mi seguono” (Gv 10,27). Materialmente ciò significa andare dietro a lui ovunque egli vada (Ap 14,4), ma seguirlo anche conformando la nostra vita alla sua. Il pastore quasi sempre sta davanti al gregge per aprirgli la strada verso pascoli abbondanti, ma a volte sta anche in mezzo, quando le pecore riposano, e sa stare anche dietro, quando le pecore devono essere custodite perché non si perdano.
Gesù assume questo comportamento verso la sua comunità, verso di noi, e ci chiede solo di ascoltarlo e di seguirlo senza precederlo e senza attardarci, rischiando di perdere il cammino e l’appartenenza alla comunità.
In questa condivisione di vita, in questo coinvolgimento tra pastore e pecore, tra Gesù e noi, ecco la possibilità della conoscenza: “Io conosco le mie pecore” (Gv 10,27). Certamente Gesù ci conosce prima che noi conosciamo Lui, ci scruta anche là dove noi non sappiamo scrutarci; ma se guardiamo a Lui fedelmente, se ascoltiamo e “ruminiamo” le sue parole, allora anche noi Lo conosciamo.
E da questa conoscenza dinamica, sempre più penetrante, ecco nascere l’amore, che si nutre soprattutto di conoscenza. Avvolti dal suo sguardo amante, allora possiamo decidere di amarlo a nostra volta.
Che cosa attendere dunque da Gesù? Il dono della vita per sempre (Gv 10,28). Queste parole del Signore risorto – “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano, perché sono il dono più grande che il Padre mi ha fatto” – sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con il Signore.
Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù.
L’Apostolo Paolo, significativamente, ha gridato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (Rm 8,35).
Potremmo aggiungere: la pandemia? No, niente e nessuno. Eppure, quante volte per paura di perdere la nostra vita, pur professandoci cristiani, evitiamo di ascoltare e seguire Gesù, e viviamo chiusi in noi stessi e dimentichi degli altri… “Ma in tutte queste cose – dice Paolo – noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,37).
Perché l’amore di Dio resiste anche oltre la morte. Nemmeno lei può strapparci dalla Sua mano.
don Andrea